Voi preferite avere di fronte persone che manifestano i loro reali sentimenti? Questa, che sembra una domanda trabocchetto, in realtà non lo è.
La maggior parte delle persone desidera sincerità, ma quanto è gradevole frequentare persone in difficoltà ad esempio tristi o angosciate? E se queste persone non fossero amici, ma colleghi, collaboratori o responsabili? Se il vostro collega, che si è appena lasciato con il partner fosse intrattabile, voi come reagireste?
E’ indubbio che la sincerità aumenti la fiducia, ma siamo sicuri di poter palesare le nostre emozioni con tutti?
La risposta a questa domanda la forniscono alcuni ricercatori che hanno deciso di analizzare in modo approfondito questo aspetto delle relazioni interpersonali sul lavoro. Mi riferisco ad uno studio condotto da Emma E. Levine⁎, Kristina A. Wald dal titolo Fibbing about your feelings: How feigning happiness in the face of personal hardship affects trust.
Quello che emerge è che soprattutto sul lavoro è preferibile fingere di essere felici anche quando le cose vanno male.
Gli adulti fingono di essere felici almeno una volta a settimana e la felicità è l’emozione che è soggetta più di altre ad una finzione ( sono state ampiamente battute le emozioni di : tristezza, rabbia, paura o eccitazione).
Gli studi dimostrano che l’82% degli adulti che lavorano ha sospettato che i colleghi mentissero in merito alla loro felicità, ma il 55% non si è basata su segnali comunicativi (linguaggio del corpo, tono di voce ecc.), ma su informazioni in loro possesso in merito al periodo buio attraversato dai colleghi.
Ma perché si finge di essere felici? Sembra che ci siano almeno tre buone ragioni:
- Conformità. Ci si conforma alle regole sociali che quasi impongono di essere sempre al top. Nelle aziende questo è quasi un paradigma inviolabile , mostrarsi felici è mostrarsi disponibili e dare contestualmente un’immagine positiva dell’azienda. Sorridere, sorridere, sorridere. A prescindere non conto le volte nelle quali ho sentito dire che i problemi di casa non si portano sul lavoro. Questa non è altro che una richiesta esplicita: nascondi la tristezza e vestiti di un bel sorriso!
- Competenza. Riuscire a gestire le proprie emozioni In secondo luogo, fingere la felicità indica la capacità di una persona di impegnarsi
regolazione delle emozioni. Sostanzialmente ci comunica: autocontrollo, abilità e moderazione. Gestire le proprie emozioni e non riversarle sugli altri è stata a lungo considerata (e forse lo è tuttora) una virtù necessaria per essere efficaci nel cooperare con gli altri e gestire le interazioni sociali. - Resilienza. Fingere di essere felici nonostante le avversità può indicare perseveranza e impegno verso gli obiettivi aziendali. Dimostra la volontà e la capacità di concentrarsi sulle esigenze del lavoro piuttosto che sui bisogni personali. Di conseguenza le persone che riescono a farlo vengono percepite come resilienti.
A prescindere non dover gestire il cattivo umore degli altri (che magari hanno ottime ragioni per essere tristi) questa “finzione” può essere considerata come una sorta di cortesia e un atto di benevolenza e di attenzione al nostro benessere, del quale veniamo omaggiati.
Ovvio questo costa a livello energetico. Non possiamo e non dobbiamo fingere con tutti, così come non è opportuno far subire agli altri (a tutti gli altri) il nostro stato d’animo.
Scegliete le persone con le quali essere sinceri, tutti ne abbiamo bisogno, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci sostenga quando siamo a terra o che condivida la nostra felicità quando siamo al settimo cielo. Se non ci sono queste persone nella vostra vita è un problema.
Forse varerebbe la pena di dedicare più energie a questa “ricerca” o comunque a coltivare relazioni vere anche a costo di trascurare qualche obiettivo lavorativo. di tanto in tanto.