Di manuali sulla leadership ne esistono tanti, anzi tantissimi. Tutti sono pieni di concetti, molti dei quali condivisibili.  Altri di suggerimenti poco applicabili nella vita vera, ma dal fascino indiscusso.

Esistono alcuni elementi che però non sempre vengono messi nel giusto risalto.

  • Il primo riguarda il concetto stesso di leadership. E’ un leader chi ha dei seguaci, se non esistono persone che seguono, non possono esistere persone che guidano. La natura delle organizzazioni umane esprimendo una gerarchia snatura questo concetto, per questa ragione essere leader o ricoprire un ruolo di responsabilità, sono spesso due cose distinte.

Un sondaggio pubblicato da Forbes ha rilevato che il 65% dei dipendenti rinuncerebbe a un aumento se questo significasse vedere il capo licenziato

  • Il secondo è che non a tutti la leadership piace. Non  mi sto riferendo ad un eventuale odio per il proprio capo, ma al fatto che esistono persone che io definisco outsider, che semplicemente non considerano la dimensione del gruppo, la loro dimensione. Per questa ragione non riescono a trovarsi a loro agio nel ruolo di seguace o di leader. Vi ricordate la scena di Forrest Gump e della corsa? Gli outsider sono un po’ così, fanno quello che amano e a volte si trovano seguaci che li seguono, ma guardano la cosa con sospetto e mai e poi mai farebbero qualcosa solo per farsi seguire da qualcuno. La letteratura di riferimento invece tratta la leadership  come la Nutella, si da per scontato che piaccia a tutti.
  • In terzo luogo esistono alcuni luoghi comuni sulla leadership che non tengono conto di un aspetto fondamentale: la fiducia. Quando si parla di fiducia si entra in un territorio nebuloso, ma affascinante. Senza aver la pretesa di analizzare i vari aspetti che compongono la fiducia sicuramente un responsabile che esercita solo il controllo dell’attività limitandosi a capire di chi è la colpa, difficilmente godrà della fiducia dei propri collaboratori. Senza fiducia non esiste una leadership in grado di far crescere le persone. Per questa ragione  leadership, crescita, giudizio e colpa sono termini collegati tra loro.

Robert James nel suo libro “le regole essenziali della leadership” tratta di questo argomento un po’ insolito.  Come l’autore afferma nel momento in cui si sceglie di essere leader di un gruppo, tutto ciò che accade nel gruppo è una responsabilità del leader (responsabilità e non colpa).

Se questo adagio venisse seguito ogni tanto non sarebbe male. In realtà quello che spesso capita di osservare è un atteggiamento che si sposta tra due estremi: la colpa è degli altri (è il più frequente),  la colpa è mia (esistono alcuni casi documentati).  In un caso o nell’altro i danni che derivano sono piuttosto pesanti.  Se la colpa è degli altri, infatti, segue un assunto: con ogni probabilità il gruppo non è  non sarà mai in grado di produrre buoni risultati (indipendentemente dal leader).  A volte si assiste anche ad un ulteriore passaggio: il gruppo potrebbe fare bene, ma non lo fa apposta perché ce l’ha con me.

Se il leader si sente in colpa, scatena un insieme di effetti che porteranno con ogni probabilità ad un incessante dolore al suo fegato.  Non è possibile avere come compagna la colpa quando si devono prendere decisioni a volte anche impopolari.  In questo caso sarà probabile assistere ad una divisione netta di buoni e cattivi tipica delle leadership insicure.

Il problema è che la categoria delle colpe non dovrebbe trovare posto in un’azienda.  Nessuno deve avere la colpa di qualcosa, ma tutti devono assumersi la responsabilità di quello che fanno.

La colpa, infatti, prevede un pentimento o una punizione,  prevede generalizzazioni  ed assoluzioni che cadono dall’alto. La colpa, inoltre, scatena il ben noto meccanismo dello “scarica barile” conosciuto in tantissimi contesti organizzativi.

Nella colpa non ci sono spazi di miglioramento, il problema diventa la persona e le soluzioni al problema spesso coincidono con atti che si dirigono contro quella specifica persona.  La colpa non permette di analizzare l’errore,  ma giudica generalizzando.

In questo modo non è possibile capire quello che non ha funzionato e agire in modo diverso.  Chi è ancora convinto della correttezza del motto “sbagliando si impara”, vive in un’ illusione, dal momento che si impara solo se si riconosce l’errore.

E’ il riconoscimento  e l’analisi dell’errore che porta alla costruzione di un’esperienza degna di essere chiamata tale.  Queste  parole possono forse essere condivise da molte persone, ma a livello pratico voi come vi comportate? Riuscite a distinguere chiaramente tra colpa e responsabilità e a comunicarlo in modo efficace?

L’errore va descritto non giudicato